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Riceve a Trieste

A maggio 2009, come molti altri miei colleghi, ho operato in qualità di psicologa dell’emergenza in Abruzzo nei campi allestiti nel post-terremoto. Sono trascorsi due anni da quel 6 aprile che ha sconvolto l’idrogeologia del territorio, i secolari insediamenti umani e le relazioni di una comunità, e se molto è stato fatto, molto resta ancora da fare per la ricostruzione. Dal punto di vista materiale esiste ancora il problema della rimozione delle macerie che tuttora giacciono sul centro storico dell’Aquila (ma non solo) così come la messa in sicurezza di molte zone, ma ciò che rende particolarmente dolorosa e difficile la ricostruzione e la riconquista del territorio come luogo antropologico – relazionale, identitario e storico – è la grossa difficoltà di organizzare la partecipazione della popolazione ai processi decisionali.

Sono ormai moltissime le ricerche, a partire da quella famosa di Berkman e Syme del 1979, che sostengono l’importantissimo effetto diretto e indiretto del supporto sociale sulla salute sia a breve che a lungo termine e che permettono alle persone che hanno subito un trauma di recuperare il benessere con una prognosi migliore.
E’ noto che il supporto sociale modifica gli effetti biologici dello stress, in particolare il rilascio di cortisolo e adrenalina, e a lungo termine diviene un fattore protettivo per la salute, diminuisce i tassi di morbilità e mortalità.

Nel caso della ricerca citata e di quelle successive si sono prese in considerazione le reti sociali individuali, cioè il supporto sociale spontaneo di cui una persona può disporre.
Al giorno d’oggi, oltre a considerare le reti sociali individuali che una persona ha nella vita quotidiana, ritengo sia diventato importante ed essenziale prendere in considerazione le cosiddette reti sociali virtuali che hanno preso a svilupparsi grazie al cosiddetto Web 2.0.

Per quanto questo sia un concetto controverso, è abbastanza condiviso che con Web 2.0 si indica l’insieme di tutte quelle applicazioni online che permettono uno spiccato livello di interazione sito-utente: blog, forum, chat, sistemi quali Wikipedia, YouTube, Facebook, MySpace, Twitter, Gmail, WordPress, Flicker, per citarne alcuni.

Gli sviluppi che queste applicazioni hanno avuto negli ultimi anni hanno reso “la Rete” un retroterra comunicativo normale, con cui si tengono in contatto amici vicini e lontani, compagni di scuola, genitori e figli, colleghi, artisti, persone unite da interessi comuni. Non sempre queste persone hanno anche una conoscenza reciproca per così dire “offline”, ma ciò non toglie che le relazioni via internet abbiano una valenza e un’intensità emotiva paragonabile, per certi aspetti, a quella che si ha con persone significative dell’entourage quotidiano. Credo sia il caso di considerare questo fenomeno come un segnale forte di un cambiamento antropologico delle relazioni, e che esso vada considerato nelle sue potenzialità anche nel caso delle emergenze. La rete andrebbe tenuta presente e valorizzata anche nelle discussioni sui bisogni di salute di un territorio in quanto può costituire una risorsa concreta.

Nella mia esperienza, le reti relazionali via internet hanno assunto una drammatica importanza nei primi giorni dopo il terremoto in Abruzzo. Molte persone che erano state salvate e alloggiate in diverse sistemazioni, disperse sul territorio, hanno chiesto ai soccorritori di poter utilizzare internet allo scopo di mettersi in contatto con parenti e amici tramite i social network o le applicazioni online che erano soliti utilizzare prima dell’evento. La necessità primaria di quei giorni, nel comprensibile caos che un evento catastrofico di così vaste dimensioni territoriali provoca, era quella di sapere se le persone care fossero vive e dove si trovassero, e in molti casi la rete ha assolto questo compito con una potenza e un’efficacia senza pari.

Nella seconda fase dell’emergenza, quando i bisogni primari, fisiologici e di sicurezza, erano stati soddisfatti, le persone hanno iniziato a utilizzare la rete non solo per tenersi in contatto con i loro cari ma anche per scambiarsi informazioni, per costruire e ri-costruire le reti sociali che il terremoto aveva disgregato, per confrontarsi sui nuovi bisogni e per progettare il futuro anche al fine di capire, in un periodo in cui non era certo facile muoversi sul territorio, cosa stava accadendo nei diversi paesi e a livello politico.

Attualmente in rete sono presenti video, blog, siti di informazione alternativi al mainstream, luoghi di discussione, raccolta e confronto mediante i commenti, e questi strumenti sono divenuti agorà attorno alle quali si è andata gradualmente aggregando una parte della comunità che è stata frammentata e dispersa dal terremoto e dalle sue conseguenze.

Sarebbe un traguardo importante se, nel caso in cui si verifichino deprecabilmente in futuro altre emergenze, tali iniziative – che possiamo a pieno titolo definire “reti protettive” – non venissero demandate ai singoli ma fossero piuttosto supportate, già nella prima fase dell’emergenza, mediante l’equipaggiamento di infrastrutture e attrezzature.
Inoltre sarebbe auspicabile che la necessità di abbattere il digital divide (sia come copertura del territorio che come alfabetizzazione informatica) venga vista anche dal punto di vista della prevenzione del disagio psicologico in caso di emergenza.

* Articolo pubblicato su Osservatorio Psicologia nei Media

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