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Riceve a Trieste

L’immagine del corpo femminile nei media alimenta e conferma la disparità di genere.

Il video “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo che avevamo avuto il piacere di presentare ai lettori 4 anni fa su questo sito, ha raggiunto tutto il mondo e ha, attualmente, oltre 7 milioni di visite.

Recentemente ho avuto il piacere di incontrare l’autrice in un dibattito riguardante il rapporto tra la violenza alle donne e i media, e sono venuta a conoscenza delle ragioni che hanno portato alla realizzazione del video ed anche di come l’impegno sociale di Zanardo nei confronti di donne e media stia continuando.

Quando siamo immersi in un determinato contesto, tutto ciò che avviene all’interno può sembrarci “normale” e passa sotto silenzio senza protestare. Vivere all’estero e tornare in Italia di tanto in tanto è quello che ha permesso a Zanardo di provare stupore e indignazione ogni volta che accendeva la TV. “Pensavo che proprio in quel momento stessero passando in TV qualcosa di terribile – come ad esempio tenere una donna sotto a un tavolo – allora telefonavo agli amici e chiedevo loro di guardare quella trasmissione… e loro mi rispondevano che era normale. Ma la Tv non trasmette cose simili ovunque”.

Da subito Zanardo si è detta che non era sufficiente spegnere l’interruttore, perché anche se il singolo spegne la “cattiva maestra”, molti altri stanno guardando, e la televisione è stata e rimane il più importante agente di socializzazione degli ultimi 30 anni. Se tutte le persone sensibili spengono la TV, chi chiederà alla TV di cambiare? Occorre impegnarsi attivamente, monitorare quel che viene trasmesso e fare qualcosa per obbligare la TV a cambiare.

Negli ultimi 4 anni, qualche risultato è stato ottenuto: “Oggi – dice Zanardo – sarebbe più difficile realizzare un documentario come “Il corpo delle donne”, sono meno presenti le riprese ginecologiche, gli insulti e la violenza alle donne, ed è una buona notizia”.

Va detto che quando parla di TV, Zanardo si riferisce alle reti generaliste che fanno grandi ascolti: RAI 1, RAI 2 e i canali Mediaset; altre reti, come RAI 3 e La 7 hanno alcune trasmissioni migliori ma anche meno audience e sono perciò meno incisive nel tessuto sociale.
Questo tipo di televisione, inaugurata negli anni 80 da trasmissioni come “Colpo Grosso” e “Drive In”, era stata salutata come una liberazione, anche dalla sinistra italiana, da un’atteggiamento un po’ bigotto che precedentemente pervadeva le trasmissioni RAI.
Poi, un po’ alla volta, questo è diventato “il modo” di fare TV.

“Drive In” ha sdoganato l’oggettivizzazione del corpo femminile. Un esempio di questo processo sono le inquadrature delle ballerine di fila in cui si vede soltanto il busto senza testa. Un po’ alla volta questo stile si è propagato e le donne sono diventate parti, oggetti: tetta, sedere, coscia e non più persone intere.
Negli anni 90 si è arrivati a mandare in onda trasmissioni quasi pedofile come “Non è la RAI”, mentre la pressione a ottenere introiti pubblicitari ha spinto la RAI ad adeguarsi a questo modo di fare televisione, surclassando le TV commerciali.

Il potere della televisione come agente di socializzazione

La socializzazione è il processo attraverso cui apprendiamo le competenze e gli atteggiamenti connessi al nostro ruolo sociale, incluso il ruolo di genere. E durante gli anni dello sviluppo questi valori e modelli di comportamento vengono trasmessi ad ogni essere umano principalmente da questi tre agenti di socializzazione: la famiglia, la scuola e la televisione.
Oggigiorno la famiglia è in crisi, la scuola viene depotenziata da decenni mentre la televisione è diventata sempre più potente: 5 reti su 6 trasmettono 24 ore al giorno e contabilizzano un fatturato enorme. Al potere della televisione in sé vanno aggiunti l’effetto della pubblicità e di internet. La pubblicità, sia detto per inciso, costituisce un elemento pervasivo e non selezionabile, ed è pertanto ancora più “pericolosa” degli altri due media.

Come fanno le famiglie a contrastare tutto questo? Da Roma in giù è normale che in ogni casa ci siano 3 o 4 televisori, al nord ce ne sono mediamente 2. Inoltre i ragazzi guardano molta televisione online, grazie a portali come YouTube perché ormai i canali televisivi hanno colonizzato la rete. E non è vero che i ragazzi siano così “smanettoni” con internet e i computer. Ad un’analisi meno superficiale si nota che nella stragrande maggioranza dei casi il loro utilizzo è il consumo passivo, del tutto analogo a quello che fanno della TV.

In questo panorama, pensare di affrontare il potere della televisione enumerando tutto ciò che non va durante dibattiti seguiti dal 3% della popolazione è una strategia perdente; il loro impatto sull’opinione pubblica non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello di una trasmissione come “Striscia la notizia” – quella che ha creato il tanto aborrito “velinismo” – che raduna 7-8 milioni di spettatori davanti allo schermo ogni sera da 25 anni.

Riprendiamoci la TV! – è l’esortazione di Zanardo – …riprendiamoci almeno una rete. La TV non deve essere qualcosa da cui ci dobbiamo difendere, spegnendola: è un nostro diritto”.
E per comprovare la bontà possibile della TV come agente di promozione sociale, ricorda il programma “Non è mai troppo tardi”, andato in onda sulla RAI negli anni 60. La trasmissione era stata concepita per contrastare l’analfabetismo degli adulti ed era condotta dal maestro Manzi, coltissimo e pieno d’amore per le persone. Dopo qualche anno di “lezioni a distanza”, gli ascoltatori si presentavano all’esame per ottenere la licenza elementare. I lettori più agée lo ricorderanno senz’altro, ma quel che forse non sanno è quante persone la hanno ottenuta.
Si tratta di un numero che rasenta l’incredulità: un milione e mezzo di italiani.

La disparità di genere non è un mito

Dopo questo dato che lascia di stucco, Zanardo passa ad illustrare altri dati. Il World Economic Forum è un’ente autorevole che dal 2006 pubblica ogni anno il Global Gender Gap. L’indice fornisce un quadro per catturare l’ampiezza e la portata delle disparità di genere in tutto il mondo utilizzando criteri economici, politici, basati sull’istruzione e la salute.
Il rapporto del 2013 colloca l’Italia al 71° posto. L’anno scorso l’Italia si trovava all’80° posto, ma se questo avanzamento sembra confortante, lo è molto meno vedere quali sono i paesi che si trovano intorno a questo livello della graduatoria: la Cina si trova al 69° posto e la Romania al 70°. Subito sotto troviamo la Repubblica Dominicana, il Vietnam, la Repubblica Slovacca e il Bangladesh. I paesi del Nord Europa si trovano tutti nei primi posti e tutti i paesi europei nei primi 20. E’ interessante sapere che questa tabella viene presa in considerazione da tutti i Ministeri dell’Economia in Europa, per le ricadute che la disparità di genere porta alle economie nazionali, ma che questo purtroppo non avviene in Italia.

A riprova di questo atteggiamento c’è anche il rapporto del Censis su Donne e Media in Europa, che presenta un ritratto affatto edificante dell’immagine della donna nella televisione italiana.
“Edificante” sarebbe proprio il termine giusto per descrivere quel che dovrebbe essere il contributo dato anche dai media alla vita delle donne, dato che l’articolo 3 della Costituzione Italiana recita: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” Questo principio afferma chiaramente che lo Stato deve aiutare ogni cittadino ad esprimere al meglio il suo potenziale, a costruirsi nel suo pieno sviluppo. Ma invece di correre ai ripari, si lascia che la TV svolga un ruolo al limite dell’anticostituzionalità, e questo avviene principalmente perché la questione femminile non è sentita come autorevole e non è nell’agenda politica.
E’ vero, sono stati elaborati protocolli e i codici di autoregolamentazione per la televisione, ma purtroppo vengono regolarmente disattesi e, quel che è più grave, quando viene sollevata la “questione femminile”, a differenza che in altri paesi in Italia si ricevono reazioni di noia e di fastidio.

L’impegno di Zanardo nelle scuole

In questo panorama avvilente e umiliante, l’impegno attuale di Zanardo è di lavorare nei prossimi 10 anni per portare nelle scuole dei percorsi di educazione ai media – che in altri paesi sono previsti a livello ministeriale – che insegnino loro a decodificare i messaggi verbali e non verbali mediati dalla televisione sul ruolo delle donne.
Tocca diventare scomodi”, dice.
Ci sono percorsi rivolti ai ragazzi tra i 14 e i 19 anni, ma l’azione più efficace è quella di formare gli insegnanti di modo che dopo possano loro stessi lavorare con i ragazzi e raggiungerne un numero più alto. In Toscana sono stati formati 64 insegnanti e in Trentino è partito un progetto analogo.

I risultati con i ragazzi sono confortanti: quando vengono aiutati a “vedere”, la velocità e l’intensità della loro reazione è impressionante. Le ragazze si indignano per la mancanza di rispetto e di libertà verso le donne, i ragazzi si vedono rappresentati a livello di primati infoiati ed entrambi prendono le distanze con rabbia da questi stereotipi vecchissimi e idioti, rivendicando la propria natura di esseri umani complessi.

Zanardo ci offre alcuni stralci del lavoro che fa nelle scuole, mostrando degli spezzoni di note trasmissioni.

  • Papi che presenta i concorrenti di un gioco, 2 ragazze e un ragazzo: la prima viene inquadrata con una ripresa che fa scorrere la telecamera dal basso verso l’alto, inquadra le gambe nude e su a salire fino al viso, non le viene concessa la parola. Il ragazzo viene inquadrato in volto e gli viene chiesto di cosa si occupa. Ha una manciata di secondi per parlare di sé. La terza ragazza viene omaggiata dello stesso taglio di ripresa e le viene chiesta conferma del suo paese di origine. Emette un “sì”, e il suo momento è già passato.
    Per noi psicologi (ma anche per gli avvocati ed altri professionisti) la differenza tra le implicazioni di una domanda aperta e quelle di una domanda chiusa è nota, e sappiamo quando e perché utilizzare l’una o l’altra. Ai non professionisti della comunicazione, o semplicemente alle persone mediamente distratte che guardano la TV, però tutto ciò può passare inosservato; nel contempo la telecamera passa un potente messaggio oggettivizzante per le ragazze e uno di personificazione per il ragazzo (non c’è nulla di più personale del nostro volto).
  • La ministra in minigonna: l’intervento non è bacchettone, ma mirato a mettere in evidenza che in TV, a differenza che dal vivo, se la telecamera insiste sul sedere ciò che viene detto va perduto, anche se è una cosa interessante. Il punto in evidenza non è la “colpa” della ministra, e neanche delle ragazze che vanno scosciate in TV, ma il fatto che la TV stessa plasma e manda in onda certi messaggi subliminali. Chi se la prende con le donne, non conosce il potere dei media, e soprattutto non sa che tutto è preparato in anticipo.
  • Uno stralcio di “Sarabanda”, con Mammuccari vestito e Belen in bikini: mentre Belen sale le scale, la telecamera posizionata in precedenza le regala una ripresa dal basso, lo stacco inquadra il volto di un ragazzo che sembra allupato, poi il video riprende in posizione ginecologica.

Uno dei modi semplici per svelare quello che non appare a prima vista, che può provare ciascuno di noi con facilità, è togliere il video e lasciare l’audio: la percezione visiva è il canale prevalente per l’apprendimento, attraverso il quale elaboriamo e organizziamo gran parte delle informazioni, quando viene eliminata possiamo cogliere il messaggio verbale con maggior chiarezza.

L’ottundimento costante operato dalla televisione si iscrive nella classe della “banalità del male”, quel male che in tante famiglie in cui non circolano libri si assorbe in maniera inconsapevole prima dell’ora di cena, seduti sul divano di casa in compagnia del fratellino.

Al termine del dibattito, uscendo, mi torna in mente un servizio delle Jene di parecchi anni fa, era il 2008. Elena Di Cioccio si è vestita come una soubrette, un costume con cui le donne entrano ogni sera nelle case, e ha provato a passeggiare sulla via Salaria, a Roma.
Se non lo avete visto o non ve lo ricordate, e volete vedere cosa è successo, potete guardarlo a questo link
Di Cioccio Soubrette in strada

* Articolo già pubblicato su Osservatorio Psicologia nei Media

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